Temi (e variazioni) su alcune composizione di Mozart


Approfondimenti da docenti del Conservatorio di Musica di Milano


Abbiamo chiesto ad alcuni docenti del nostro Conservatorio di approfondire varie tematiche relative agli anni giovanili di Mozart trascorsi nel nostro paese e alle opere che ha scritto nel nostro paese durante i viaggi in Italia
Ogni docente ha proposto il proprio contributo realizzandolo in forme diverse.


    • Fabio Sartorelli
    • Antonio Polignano
    • Roberto Perata (contenuto disponibile da gennaio 2024)
    • Emilio Piffaretti - Antonio Polignano - Viviana Cadari (contenuto disponibile da gennaio 2024)
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Fabio Sartorelli - Presentazione del Ritratto di W. A. Mozart al cembalo di Giambettino Cignaroli

Roberto Perata - Analisi di Lucio Silla di Mozart

Emilio Piffaretti - Antonio Polignano - Viviana Cadari

1. Cantante e ruolo: leggiamo la voce

2. Dentro al Teatro

1. Cantante e ruolo: leggiamo la voce

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Dentro al teatro

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Antonio Polignano - Riflessioni sui testi delle opere milanesi

Teatri

Immaginiamo un mondo senza televisione, senza cinema, senza mezzi di riproduzione della musica, senza telefoni, senza giochini elettronici, senza elettricità… in un mondo come questo, come è poi stato fino alla seconda metà dell’Ottocento, non sorprende che la vita sociale fosse assai più viva e proiettata al di fuori delle abitazioni, nei luoghi di incontro abituali del passeggio o dello spettacolo. E non sorprende quindi che il Teatro, sia qualcosa di più di quello che è oggi per noi: non solo il luogo delle rappresentazioni e della musica, del canto e delle scene destinate a suscitare lo stupore e l’ammirazione del pubblico, ma anche il luogo degli incontri, degli intrattenimenti, del gioco e, perché no, delle cene. Ciò spiega perché a Milano, ma il discorso varrebbe per qualsiasi teatro italiano di quel tempo, i palchettisti, proprietari del loro angolo di teatro, gestiscano il loro spazio come una sorta di dependence domestica, dove ricevono ospiti, conversano amabilmente, sorseggiando magari una bibita o gustando un sorbetto, durante la rappresentazione. Non sorprende che i ridotti siano luoghi dove si gioca d’azzardo o si cena e che i camerini oggi riservati a custodire i cappotti fossero un tempo destinati alla preparazione dei cibi. Tutto ciò è noto e non se ne parlerebbe se non avesse una, per noi interessante, ripercussione sulla musica, sui cantanti e sul modo in cui un tempo si assisteva alle opere. Di quanto Burney scrive a proposito del Teatro Ducale di Milano, ci colpisce in realtà una sola osservazione: “Durante la rappresentazione il chiasso era incredibile, e non cessò se non quando si eseguirono due o tre arie, e un duetto che mandarono in visibilio l’uditorio”. Per molto tempo, certamente per buona parte dell’Ottocento, il comportamento del pubblico a teatro, l’organizzazione di questo e le consuetudini vigenti si adatteranno meglio al quadro sin qui descritto che ai comportamenti odierni, per noi abituali e apparentemente esclusivi del raccoglimento e del silenzio. Certe abitudini, inveterate presso il pubblico, sono dure a morire se ancora alla prima di Madama Butterfly, nel 1904, un claudicante Puccini, reduce del clamoroso incidente automobilistico dell’anno precedente, si presenterà al pubblico per riscuotere qualche tiepido consenso. La chiamata alla ribalta dell’autore, anche più volte nel corso della rappresentazione, è infatti ancora una consuetudine dura a morire e questo nonostante che, per la prima di Bohème a Torino, otto anni prima, richieste analoghe all’indirizzo di Puccini e di bis, siano prontamente rifiutate da Toscanini, inflessibile custode dell’integrità narrativa dell’esecuzione. Lo stesso Toscanini che, facendo tesoro dell’esperienza maturata a Bayreuth, farà scomparire l’orchestra del Teatro alla Scala, fino ad allora, come altrove, all’altezza della platea, nel ben noto “golfo mistico”. La vera rivoluzione nel modo di stare a teatro, infatti, verrà da oltralpe, soprattutto grazie a Wagner e a Berlioz, per i quali il comportamento del pubblico durante la rappresentazione non deve poi più di tanto discostarsi dal contegno osservato durante una normalissima funzione religiosa. Col tempo, anche per effetto del dilagante successo dell’opera wagneriana, massimo nei primi decenni del Novecento, questo nuovo abito mentale comincerà sempre più a radicarsi nelle coscienze degli spettatori e a trasmettersi anche alle opere del repertorio italiano. Non c’è che da rallegrarsene. Peccato che la tendenza ad assistere in religioso silenzio sia oggi talmente radicata da escludere nel modo più assoluto un comportamento attivo da parte del pubblico almeno nell’unico diritto che in fondo uno spettatore pagante potrebbe rivendicare; quello di disapprovare una musica nuova non gradita. Di fronte a questo il pubblico non insorge più, piuttosto assiste passivamente, abbandona la sala o dorme, per poi magari svegliarsi per gli applausi finali e unirsi a essi…

Contrappunto

Il famoso esame sostenuto da Mozart a Bologna il 9 ottobre 1770 per l’ingresso ufficiale nell’Accademia Filarmonica ha da sempre interessato gli studiosi, anche se i pareri in materia sono stati tutt’altro che concordi. Piuttosto che l’effettivo intervento di padre Martini sull’elaborato mozartiano, ormai dato per assodato, è invece interessante analizzare l’oggetto di tale intervento, indubitabilmente fuori stile, nonostante che, come scrive Leopold, “questo genere di composizione vieta molte cose, che gli è stato detto preliminarmente di non fare”. Ignoranza o deliberata scelta? In realtà, il Nostro ha tutte le carte in regola per superare l’esame, adeguandosi alle consuetudini dello stile “osservato”: l’introitus “Cibavit eos” KV 44, composto al tempo dell’apprendistato martiniano, non lascia dubbi in proposito. Di qui il sospetto che Mozart abbia intenzionalmente adottato una scrittura molto più libera: arpeggi, anche dissonanti, relazioni con il basso non correttamente preparate o non correttamente risolte e intervalli melodicamente non praticabili, incurante (o forse desideroso?) dell’eventualità di essere respinto. Cappelletto rievoca la “splendida invenzione” del film di Pupi Avati che forse, dopo queste considerazioni, non appare nemmeno tanto campata per aria. Rimane il mistero ma anche la certezza che l’esperienza bolognese abbia lasciato in Mozart un seme destinato a germogliare più avanti. Le lettere successive del salisburghese, alla “Paternità molto Reverenda” di Martini, testimoniano questo legame e se è vero che al contrappunto severo Mozart non tornerà più, è indubbio che la conoscenza delle opere di J. S. Bach e di Handel, nella biblioteca della corte di Vienna nel 1782, lo porterà a reimpiegare il contrappunto nella musica strumentale e vocale del suo tempo: quel contrappunto che lo Stile Galante aveva bollato come arido e astruso, relegandolo al solo ambito della musica sacra. Per Mozart si aprirà quindi una nuova stagione compositiva durante la quale nasceranno opere che impiegano con assoluta maestria le tecniche del contrappunto strumentale all’interno di un linguaggio armonicamente complesso, tipicamente tardo settecentesco. Capolavori del genere sono i movimenti estremi della Sonata per pianoforte KV 576 e il finale della Sinfonia n. 40 KV 550, ma di grande interesse sono anche l’ultimo tempo del Quartetto per archi KV 387 e l’Ouverture della Zauberflöte. Sconcertante è infine l’impiego di un vero e proprio canone a tre voci nel Finale II dell’opera Così fan tutte (un canone in un’opera, e per di più buffa!) e addirittura di un corale figurato su cantus firmus sempre nella Zauberflöte. Nessun altro compositore al tempo oserà tanto e bisognerà attendere l’Ottocento per ritrovare qualcosa di simile: le fughe dei Meistersinger di Wagner, del Falstaff di Verdi o il fugato nel finale del secondo atto della Manon Lescaut di Puccini ne sono un esempio e rappresentano una curiosa commistione di generi e di stili, di gesti formali e di epoche differenti che costellano un percorso cominciato forse da quella giovanile e un po’ ribelle prova d’esame “sbagliata”.

Cantanti

Da quando il “più pomposo e più bello di tutti gli spettacoli” approda alla dimensione del teatro pubblico, è subito chiaro che i suoi punti di forza saranno l’allestimento e i cantanti, con buona pace dei compositori, per lo più ridotti al rango dei portatori d’acqua. In breve, i cantanti conquistano una posizione di privilegio che le vicissitudini del giovane Mozart alle prese col Mitridate mostrano eloquentemente. Soprattutto in Italia, nei successivi decenni, il rapporto tra cantanti e compositori resterà l’aspetto più delicato e la buona riuscita di un’opera si baserà più sulla felice prestazione degli interpreti vocali che sull’effettiva validità della musica. Se per un compositore come Rossini, che pure avrà il suo bel daffare con gli arbitri dei cantanti, buona parte dei problemi con le Prime Donne saranno risolti nell’ambito familiare (il musicista pesarese sposa Isabella Colbran, indimenticabile interprete della maggior parte delle sue eroine, da Elisabetta a Semiramide), per i suoi successori si tratterà spesso di impegnarsi in un gioco equilibrato di diplomazia e al tempo stesso di convinte rivendicazioni di un ruolo troppo a lungo sacrificato. Bellini accontenta il Rubini dei Puritani, che però non impone ma semplicemente suggerisce al maestro in quale modo potrà ottenere da lui le soluzioni vocali più riuscite e convincenti. Ma lo stesso Bellini che più volte spinge una riluttante Pasta a provare e riprovare “Casta diva”, deve rassegnarsi di fronte ai capricci della Malibran che sostituisce il suo terzo atto de I Capuleti e i Montecchi, con il finale della Giulietta e Romeo di Vaccai (ancora presente in Appendice nell’edizione odierna dello spartito stampato da Ricordi). E Donizetti cede di fronte alle richieste, illogiche ma assolutamente condivisibili per il pubblico del tempo, della Meric Lalande, e scrive per Lucrezia Borgia un rondò finale, proprio come se la protagonista, anziché avere provocato, sia pure involontariamente, la morte del figlio, andasse a morire innocente tra il compianto generale come Anna Bolena o Beatrice di Tenda. Verdi, che a una cantante, la Strepponi, che poi sposerà, deve la sua iniziale fortuna, avrà con i cantanti un rapporto più equilibrato; complici i tempi che vedono una progressiva trasformazione del genere da opera “a numeri” a dramma musicale. Se ancora su richiesta di Rossini per un suo protégé, accetta di inserire un’aria drammaticamente inopportuna nel secondo atto di Ernani, rifiuta garbatamente le richieste del marito della celebre De Giuli per una seconda aria di Gilda, giustificandosi col fatto che, anche volendo, il dramma non lo permetterebbe. E sono note le riserve del compositore su questa interprete, troppo bella e con una voce troppo angelica per interpretare Lady Macbeth, e le sue meticolose istruzioni a Varesi a proposito dei ruoli di Macbeth o di Rigoletto. I tempi cambiano e il compositore assume ormai un ruolo sempre più importante. Nella seconda metà dell’Ottocento nessuno scrive più partendo dalle esigenze dei cantanti ma dalle proprie. Ciononostante, nessun compositore si sognerebbe mai di sottovalutare il ruolo degli interpreti vocali per la buona riuscita di un’opera. Quando nel 1904 Puccini, la mattina della sfortunatissima prima scaligera di Madama Butterfly, scrive a Rosina Storchio, prima Cio Cio San della storia: “Spero, per mezzo suo, di correre alla vittoria!”, è consapevole della necessità di mettere la propria musica nelle mani di un’interprete sensibile e raffinata e dopo il fiasco clamoroso, quando la cantante partirà per una tournée a Buenos Aires, il musicista, che già pensa a una nuova rappresentazione dell’opera scrive: “Mi sembra che, andandovene, voi vi portiate via la parte migliore, la più poetica del mio lavoro”. Sempre strettissimo, come si vede, il rapporto tra autore e interprete, ma ora finalmente orientato nel senso più giusto.